Nessuno meglio di un genitore lo sa: quando un bambino si trova immerso in uno stato emotivo negativo, ci si sente spesso in difficoltà nel riuscire a trovare il modo per aiutarlo a calmarsi. Di fronte alla sua rabbia, alla sua paura, alla sua ansia e alla sua tristezza si cade spesso a propria volta in preda allo spavento, all’insofferenza, al senso di colpa e di inadeguatezza.
E così capita molte volte di reagire un po’ d’impulso, in base a come ci sentiamo in quel momento o ai vissuti e ai significati che quell’emozione attiva dentro di noi, oppure di ricorrere a schemi di pensiero e azione precostituiti, il più delle volte basati sui princìpi di autorità e disciplina, ritenuti validi soltanto perché comunemente riconosciuti come i più efficaci per garantire al bambino l’adattamento alle norme e alle aspettative del contesto sociale di appartenenza.
“Non ti devi arrabbiare!”, “Smettila di fare i capricci!”, “Non si piange per queste cose!”, “Non dovete litigare!”, “Non ti prendo in braccio se non la smetti di piangere!”: sarà capitato un po’ a tutti di rivolgersi ai bambini con questo genere di affermazioni, nella speranza di rimuoverne i comportamenti avversi e di risolvere velocemente il problema. Soprattutto se si è stanchi, nervosi e stressati ciò che si desidera maggiormente di fronte a un’improvvisa tempesta emotiva nel proprio bambino è mettere a tacere i pianti, le urla, le proteste.
Ma si tratta davvero di strategie funzionali? Avrete notato, in realtà, che il più delle volte il bambino risponde intensificando ed esasperando ulteriormente il proprio stato d’animo; altre volte può invece capitare che si ottenga di fatto una momentanea interruzione del comportamento indesiderato, ma a quale prezzo per il bambino?
Proviamo a pensare a come ci sentiremmo noi se in un frangente in cui siamo arrabbiati, frustrati, in ansia, qualcuno a noi particolarmente vicino giudicasse come immotivato e sbagliato il nostro stato d’animo, sollecitandoci più o meno implicitamente a provare qualcosa di diverso da ciò che stiamo provando, o minacciandoci di non rivolgerci più la parola finché non ci fossimo calmati. Ci sentiremmo capiti? O alla sofferenza originaria si aggiungerebbe anche quella di non sentirci rispecchiati e riconosciuti in ciò che stiamo vivendo? Non ci farebbe male sentirci respinti da qualcuno che in quel momento vorremmo ci confortasse anche soltanto offrendoci la sua comprensione e vicinanza?
Ciò che ho potuto constatare nel corso della mia esperienza a fianco di adulti che si prendono cura dei bambini, è la tendenza, molto spesso, ad intervenire sulle manifestazioni comportamentali del disagio, senza tenere in considerazione lo stato emotivo ad esse sottostante ed il bisogno del bambino di sentirlo riconosciuto, accolto ed elaborato. Ma non solo: in buona fede e pensando di aiutarlo, non di rado l’adulto crede di potergli insegnare ciò che deve o non deve provare in determinate circostanze, come se l’insorgere di un’emozione fosse un atto intenzionale e volontario.
L’inganno in cui si cade spesso è quello di giudicare le motivazioni alla base del malessere del bambino attraverso i parametri che regolano il funzionamento della mente adulta: quante volte valutiamo come esagerata una reazione di pianto perché l’evento che l’ha scatenata è ai nostri occhi irrilevante? Quante volte ci ritroviamo a pensare che i bambini non siano legittimati ad esprimere dolore e sofferenza perché l’infanzia è ai nostri occhi i un tempo idilliaco in cui i problemi veri non esistono? Trascurando però il fatto che i significati affettivi che noi grandi applichiamo agli eventi della realtà sono profondamente diversi da quelli che vi attribuiscono i bambini, così come lo sono anche gli strumenti cognitivi ed emotivi di cui a seconda dell’età si dispone per far fronte alle difficoltà. Quando i bimbi esprimono rabbia o sofferenza non lo fanno per sfida o per furbizia: dietro ad ogni emozione negativa ci sono dei bisogni che chiedono di essere ascoltati. Il pianto e la protesta sono semplicemente gli strumenti che a quest’età hanno a disposizione per comunicarcelo.
In linea generale, se ci pensiamo bene, noi adulti facciamo sempre un po’ fatica ad accettare di soffermarci e fare i conti con l’emotività negativa: la viviamo come un’esperienza di cui liberarci il prima possibile, come se fosse soltanto un’interferenza da silenziare poiché disturba il corso degli eventi. In realtà, le emozioni negative sono esse stesse parte integrante del flusso della nostra esperienza ed hanno sempre una ragion d’essere al suo interno. Non esistono emozioni giuste ed altre sbagliate. Ognuna di esse ha una propria specifica funzione: la paura ci permette di scappare dai pericoli, la rabbia ci spinge a far sentire la nostra voce quando sentiamo di aver subito un torto o un’ingiustizia, la tristezza segnala agli altri il bisogno di accudimento e vicinanza. Reprimerle non farà altro che deviarne la fisiologica traiettoria espressiva, lasciandole irrisolte e generando una gran confusione nello sviluppo identitario del bambino.
Dobbiamo infatti pensare che nella mente dei più piccoli le strategie psichiche e le strutture cerebrali che presiedono alle funzioni riflessive, all’insight ed all’autoconsapevolezza sono ancora in via di costruzione e consolidamento: la corteccia prefrontale inizia a svilupparsi soltanto a partire dai 5/6 anni di età e impiegherà diverso tempo prima di raggiungere un’adeguata maturazione. Ciò significa che quando il bambino prova un’emozione, si sente attraversato da una scarica informe, caotica e incontrollata di energia, che non sa incanalare all’interno di specifici schemi di significato: non sa bene cosa stia succedendo, da cosa sia scatenata, quali conseguenze possa provocare sul mondo esterno e come farvi fronte per tornare a sentirsi meglio.
Vien da sé che se l’adulto, in tali circostanze, risponde a sua volta con elevati tassi di emotività o ricorrendo a modalità repressive e neganti, il circuito andrà in tilt ed il piccolo sprofonderà sempre più in preda al caos, in un’escalation di ansia, imprevedibilità e frustrazione. Si sentirà sbagliato per ciò che sta provando, responsabile di aver destabilizzato e allontanato l’adulto di riferimento: se questo accade frequentemente, svilupperà sensi di colpa, angoscia e vissuti di vergogna e inadeguatezza, imboccando traiettorie evolutive che porteranno ad un funzionamento basato sull’esasperazione dei propri stati emotivi, da una parte, oppure sulla loro repressione e negazione, dall’altra.
E se il bambino rimane immerso e intrappolato nei suoi bisogni di validazione insoddisfatti, come possiamo pensare che maturi la capacità di riconoscere adeguatamente quelli altrui? Al contrario di ciò che comunemente si pensa, offrirgli ascolto e rispettarlo nei suoi vissuti, prima di fornirgli i dovuti limiti e paletti, è la sola strategia che permetterà al bambino di creare nella propria mente lo spazio necessario per accogliere autenticamente quelli degli altri, senza distorcerli sulla base delle proprie paure e preoccupazioni. Solo un bambino che ha ricevuto empatia potrà allora diventare un adulto a sua volta realmente empatico. Quante volte capita invece di assistere a minacce e punizioni come metodo correttivo alla rabbia che il bambino ha riversato nell’interazione con un coetaneo o con l’adulto stesso, senza rendersi conto che la punizione altro non è che la copia stessa di ciò che gli si sta rimproverando: la prevaricazione sull’altro senza aver prestato ascolto a ciò che aveva da comunicare.
È evidente dunque quanto sia cruciale il ruolo dell’adulto nel favorire un adeguato sviluppo emotivo. Imparare a identificare e gestire le proprie emozioni, trasformandole in esperienze costruttive, è un processo che presuppone la capacità del caregiver di riconoscerle e validarle, sintonizzandosi con ciò che il bimbo sta vivendo. È necessario che quest’ultimo senta innanzitutto che ciò che prova è normale e comune a qualunque altro essere umano: vivere infatti l’esperienza di un adulto che riesce a comprendere ed empatizzare con i suoi stati d’animo perché sono qualcosa di famigliare e conosciuto, gli infonderà intanto la rassicurazione necessaria per affrontare i successivi passaggi del processo di consapevolezza emotiva. È importante rispecchiare l’emozione manifestata attribuendole un nome (“So che sei arrabbiato”, “Capisco che questa cosa ti faccia sentire triste”), poiché questo aiuterà il piccolo a catalogare e decifrare ciò che accade dentro di sé, oltre a fargli vivere la sensazione di sentirsi capito. Percepire che l’adulto, per quanto fermo e autorevole, riesce a mantenere la calma di fronte alle proprie esplosioni emotive, gli permetterà di calmarsi a sua volta e di rintracciare insieme a lui delle traiettorie di regolazione e risoluzione. A tale proposito, è importante rispettare le strategie consolatorie cui il bambino spontaneamente ricorre, evitando di sminuirle e di sostituirsi a lui nella loro selezione: il piccolo ha bisogno di testarne l’efficacia per individuare quelle maggiormente idonee a calmarlo e nessuno più di lui può sapere cosa funzioni meglio per sé. Ogni volta che ci tratteniamo dal fornire soluzioni, comunichiamo al bambino che lo riconosciamo come individuo a se stante e come agente efficace.
So bene quanto sia difficile a volte riuscire ad assecondare i tempi dei bambini e mantenere i nervi saldi in certe circostanze: non siamo fatti di ferro e persino il genitore più comprensivo può avere dei momenti in cui perde le staffe…e meno male! I conflitti, se occasionali ed entro certi ragionevoli limiti, sono parte integrante di qualsiasi rapporto umano sano e sperimentarli di tanto in tanto aiuterà il bambino ad allenarsi nell’affrontarli e ripararli: ciò che conta e che fa la differenza è proprio la capacità del genitore, una volta recuperata la propria stabilità emotiva, di ricucire la rottura senza attribuirne la responsabilità al bambino, ma piuttosto riprendendo l’episodio insieme a lui, per restituirgli con parole semplici i vissuti sperimentati (di cui il piccolo non ha colpa). Anche la mamma e il papà a volte sono in balìa delle proprie emozioni, che sollievo sapere di non essere il solo a cui capita e poterne parlare!
Non trascuriamo invece le situazioni in cui i livelli di tensione e malessere oltrepassano il margine di tolleranza, propria e del bambino, sia in frequenza che in intensità: in questi casi, concedersi l’opportunità di comprendere ed elaborare ciò che è alla base delle difficoltà sperimentate, se necessario anche con l’aiuto di un esperto, può aiutare a far emergere tutte le potenzialità e le risorse racchiuse dentro di sé, nel proprio bambino e all’interno del rapporto, a cui per qualche motivo si fatica ad accedere. Portarle alla luce, dandosi la possibilità di osservare e vivere le cose da una prospettiva diversa e maggiormente gratificante, gioverà senz’altro al benessere di entrambi.